La forza della cura nelle relazioni quotidiane: un invito a guardare l’altro con responsabilità e rispetto

Qualche settimana fa, alle Cucine Economiche Popolari abbiamo ospitato la presentazione del libro “Le tre Grazie dell’etico: vulnerabilità, cura e gratitudine” di Francesca Marin. È stato un incontro prezioso perché ha riaperto una domanda che attraversa ogni giorno il nostro lavoro, i nostri legami, le nostre scelte: che cosa significa prendersi cura? Non si tratta di un interrogativo teorico, ma di qualcosa che riguarda la concretezza della vita quotidiana. Tutti siamo immersi in relazioni che generano sostegno, fragilità, possibilità, conflitti, riconoscimento. La cura è il tessuto che tiene insieme la convivenza, e ciò che accade alle Cep lo mostra ogni giorno con chiarezza.

Il libro di Marin offre una cornice particolarmente utile: la vulnerabilità è una condizione costitutiva dell’esistenza. Ogni persona attraversa momenti di bisogno, di esposizione, di richiesta. È in questa prospettiva che la cura assume valore come relazione etica che riconosce l’interdipendenza. Marin lo esprime con grande lucidità: la gratitudine è il modo in cui diamo nome a ciò che riceviamo dagli altri, un atto che genera reciprocità e apre la possibilità di un bene condiviso.

Accanto a questa visione, la riflessione di Joan Tronto aiuta a comprendere come la cura richieda un impegno che coinvolge sensibilità, responsabilità, competenza e ascolto. Il suo modello evidenzia quattro passaggi fondamentali che descrivono un percorso, non un gesto isolato: accorgersi del bisogno, scegliere di farsene carico, agire con competenza, ascoltare la risposta di chi riceve la cura. È un processo che chiede attenzione e maturità, e che trova senso nella qualità delle relazioni.

Questi due contributi – la vulnerabilità come condizione condivisa e la cura come processo morale – offrono spunti preziosi per interpretare ciò che accade ogni giorno nelle Cucine Economiche Popolari, ma il loro significato può andare ben oltre la nostra esperienza. Parlano alla città, parlano alla società, parlano a ciascuno di noi.

La cura come attenzione e riconoscimento

Il primo passo della cura è l’attenzione. Significa accorgersi dell’altro, riconoscere la sua presenza, vedere un volto e non una categoria. La cura inizia quando si sviluppa uno sguardo capace di cogliere la fragilità senza trasformarla in giudizio.

Questo passaggio è evidente nella quotidianità delle Cep. Chi varca la soglia porta con sé storie complesse, attraversamenti spesso dolorosi, energie rinnovate, domande aperte. Ogni giorno impariamo che l’attenzione è già un modo di farsi prossimi. Ogni parola ascoltata, ogni gesto condiviso, ogni volto ricordato racconta che la cura nasce dalla capacità di vedere e di essere visti.

In questa prospettiva, la vulnerabilità non appare come un difetto da colmare, ma come una condizione che ci accomuna. Marin lo descrive come un punto di partenza per comprendere la profondità dei legami umani. La vulnerabilità crea un ponte, apre la possibilità di un incontro autentico. È il terreno su cui cresce la fiducia, perché mostra che nessuno è sufficiente a sé stesso.

La cura come responsabilità e accompagnamento

La cura diventa responsabilità quando chi vede un bisogno decide di farsene carico. Non si tratta di sostituirsi all’altro, ma di camminare accanto a lui, offrendo orientamento, ascolto, strumenti. La responsabilità è una scelta che nasce dal riconoscimento della dignità della persona.

Alle Cep questo passaggio si manifesta nelle tante forme di accompagnamento che compongono la nostra quotidianità: fornire informazioni, aiutare a capire un documento, indirizzare verso un servizio, facilitare un incontro, dare struttura a un percorso. Ogni piccolo gesto di responsabilità condivisa contribuisce a tessere una rete che sostiene.

La filosofia della cura ci ricorda che la responsabilità è parte di un processo. Ogni passo richiede attenzione, coordinamento, delicatezza. È la cura che si fa adulta, che assume il peso delle situazioni senza appropriarsene.

In questo senso, la cura è profondamente legata alla giustizia. Offrire responsabilità significa restituire possibilità, dignità, diritti. Significa costruire una società che non lascia indietro chi attraversa un momento fragile, una società che riconosce il valore di ogni persona.

La cura come competenza e professionalità

La terza dimensione della cura riguarda la competenza. La buona cura richiede conoscenze, strumenti, professionalità. Non basta “voler fare del bene”: occorre sapere cosa fare, come farlo e con quali mezzi. È un aspetto spesso sottovalutato nel discorso pubblico, ma decisivo quando si pensa ai servizi, alle relazioni di aiuto, agli spazi che accolgono.

Alle Cep, la competenza si manifesta in modi diversi: nella gestione delle attività quotidiane, nell’ascolto degli operatori, nell’attenzione dei volontari, nella collaborazione con medici, infermieri, avvocati e tante altre figure. È una competenza che nasce dal lavoro condiviso, dal confronto costante tra persone che mettono insieme saperi, intuizioni, esperienze.

La cura competente è una cura che sostiene senza sostituire, che aiuta a fare scelte, che costruisce percorsi realistici. È una cura che lavora sulla qualità, non solo sulla quantità. Ed è qui che la cura diventa cultura: un modo di abitare il mondo con consapevolezza.

La cura come ascolto e reciprocità

Ogni percorso di cura raggiunge il suo senso pieno nella risposta di chi la riceve. È la dimensione più profonda e più complessa: ascoltare la voce di chi attraversa la fragilità, lasciare spazio, accogliere le sue parole, i suoi tempi, i suoi silenzi.

Questa ricettività è un atto di rispetto, e allo stesso tempo è un modo di imparare. Ogni storia racconta qualcosa di nuovo su come stanno andando le cose. La cura cresce quando si accetta la possibilità di cambiare strada, di correggere, di adattare ciò che si sta facendo.

E in questo ascolto nasce anche la gratitudine. Marin la descrive come un modo di dare forma al valore che riceviamo dagli altri. La gratitudine è reciprocità: non è una restituzione obbligata, ma un riconoscimento. È il segno che la cura ha generato una relazione viva, capace di produrre bene anche oltre la situazione concreta.

Alle Cep questa dimensione è evidente. La gratitudine emerge nei gesti, nelle parole, nella collaborazione spontanea, nella fiducia che si rinnova. È un movimento silenzioso ma continuo, che rende la cura un bene condiviso.

Una visione che parla alla città

Le Cep rappresentano un luogo in cui la cura è una pratica quotidiana. Le quattro dimensioni indicate dalla filosofia della cura – attenzione, responsabilità, competenza, ricettività – trovano spazio nelle relazioni che si intrecciano ogni giorno: tra ospiti, volontari, operatori, medici, associazioni, istituzioni.

Ciò che accade alle Cep non riguarda solo chi le vive da vicino. È un patrimonio civile per tutta la città. Mostra che la cura non è assistenza: è un modo di costruire legami, di generare fiducia, di riconoscere il valore di ogni persona.

La vulnerabilità diventa un invito alla relazione. La cura diventa un atto di giustizia. La gratitudine diventa un orizzonte condiviso.

È questa la direzione che possiamo dare alla nostra convivenza: un cammino in cui la fragilità non fa paura, perché genera alleanza; in cui le competenze si mettono al servizio della dignità; in cui ciascuno si sente parte di una comunità. Un cammino che, ogni giorno, ricomincia insieme.