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Affacciarsi dalla finestra dopo aver toccato il fondo. E respirare. La storia di Alberto

Alberto ha l’accento garbato di uno che viene da “giù”, ma da 44 anni vive “su”, a causa di un litigio coi suoi. Prima corniciaio, poi ha perso tutto e ha frequentato l’asilo notturno e le Cucine. Ora, però, vive in una casa popolare, da solo, dopo aver dormito in stanze da sei

Alle Cucine Economiche Popolari Alberto è di casa, ma ci va giusto per salutare gli amici. «Pensa che non riuscivo più a trovare la tessera», dice entrando, a un operatore. «Meglio così», sorride quello. A Padova ci arrivò per caso, a vent’anni, dopo una banale lite coi genitori che sarebbe potuta tranquillamente rientrare, se non fosse che si ambientò subito, con facilità. Era quel che si dice un ragazzo di buona famiglia. «Trovai lavoro come corniciaio. Mi piaceva. Immediatamente dopo trovai casa. Un appartamento piuttosto grande, che condividevo con altre due persone. Eppure all’epoca era molto difficile trovare casa, forse addirittura più di adesso, perché c’era il blocco degli affitti», spiega con un accento molto garbato, unica eredità della sua terra d’origine, che definisce “giù”, in contrapposizione a questo “su”, dove vive ormai da 44 anni. Non proprio facili…

«In quella grande casa rimasi per dodici anni, anche dopo che gli altri, uno per volta, se n’erano andati. Se ne andò anche il lavoro come corniciaio, perché il proprietario dovette chiudere per problemi personali. Così mi mise a fare il barista e dopo il cameriere. Non era un lavoro che mi piaceva, ma mi dava da vivere. Poi non so cosa dirti. Persa la casa, sono tornato giù per un breve periodo, ma tutto era cambiato e anch’io lo ero. Non era più il mio ambiente. E sono tornato su. Ma era difficile trovare lavoro. Veramente, se proprio avessi voluto, credo che l’avrei trovato. Ma è andato tutto storto. Si sono accumulate tante cose, la storia con una ragazza finita male… Mi sono lasciato andare. E sono finito al Torresino».

“Il Torresino” è come i frequentatori abituali chiamano l’asilo notturno comunale. Per quanto tempo lo frequentò?

«Ci rimasi quindici anni. L’asilo è qualcosa di strano, perché ci trovi tanta brava gente e i delinquenti più incalliti, ma non riesci a distinguerli subito. Ti ci vuole del tempo. È una butta situazione. Ti fa sentire perso. Non hai privacy. Non puoi posare nulla perché sparisce. Puoi capitare in una camera con bravissime persone, ma poi la gente cambia. Va e viene, anche se qualcuno ci rimane incastrato, anche per trent’anni».

Cosa le è mancato di più?

«Forse un briciolo di fiducia. Qualcuno che ti dia fiducia come persona, così magari riesci a uscirne prima».

È in quel periodo che ha frequentato le Cucine?

«Quando dormivo al Torresino venivo a mangiare qui, dove tutto è diverso. Coi ragazzi, ci scherzi, ci ridi. Con tutti quanti. Ti senti in famiglia, avverti un senso di amicizia. Ora prendo il reddito di cittadinanza, quindi non ci vengo a mangiare, ma ho mantenuto dei rapporti splendidi, e ogni tanto passo a salutare. Per me hanno fatto molto. A volte basta una parola. Anche non un vero e proprio incoraggiamento. Basta sentirsi dire: ciao, come stai? Ed è qualcosa che ti fa sentire vivo».

Ma qual è stata la molla del cambiamento? Il reddito di cittadinanza?

«Non tanto quello, perché quando ho iniziato a riceverlo stavo ancora al Torresino. Ma quando invece è arrivata la casa… Sto in una casa popolare. È un posto che mi piace molto perché affaccia sul parco delle mura e la mattina quando apro la finestra ho questa bella vista. Prendo 550 euro al mese: ci pago casa, luce, gas e ci compro da mangiare. Riesco a viverci. Faccio piccole economie. Risparmio sulle sigarette perché me le faccio da solo. Ti inventi tante cose per poter risparmiare. Cucino a casa. Ho fatto anche il cuoco, ma non sono un granché. Oggi ho fatto il bollito. Il lesso non mi è mai piaciuto, ma ci farò lo spezzatino. Di quello che compro, è difficile che butti qualcosa. Poi non ho chissà quali esigenze».

Alberto prende il cellulare per mostrarmi la foto della sua nuova cucina. Bella, pulitissima e ordinata.

«L’ho comprata di seconda mano, rispondendo ad un annuncio on-line. Una cucina del ’74. Tenuta benissimo. I ragazzi della Comunità di Sant’Egidio mi hanno aiutato a portarla a casa. Anche con loro ho un ottimo rapporto».

Vive solo?

«Sì, così riesco a respirare. Sembrerà strano, ma la solitudine a volte fa piacere. Specialmente quando hai dormito per anni in stanze da sei».

Madina Fabretto