Come il lavoro cambia la vita: la storia di John

Tra i diversi tasselli che compongono il mosaico dell’inclusione, il lavoro ha un ruolo fondamentale. Sono molti gli ospiti delle Cucine Economiche Popolari che chiedono una mano per avere un’occupazione, ma la domanda richiede una risposta complessa. La direttrice suor Albina Zandonà ha quindi pensato di avviare un servizio di orientamento al lavoro e di affidarlo a Davide Rampazzo, operatore delle Cep. Anche questo progetto è sostenuto dai fondi dell’8 per mille, che la diocesi destina alle Cucine. «Circa un anno fa suor Albina mi ha chiesto di occuparmi del lavoro, per vedere se era possibile dare delle risposte ad una domanda che affiora spesso tra gli ospiti», spiega Davide. «Così ci siamo detti: proviamo! E ho seguito un corso al Centro per l’Impiego per capire come funziona».

Da allora, quando arrivano le persone interessate, Davide chiede loro il curriculum, il permesso di soggiorno, il codice fiscale e un documento di identità per sapere dove hanno la residenza, se ne hanno una, altrimenti per individuare un recapito. Il tutto viene poi inviato al Centro per l’Impiego, che fissa un appuntamento. Di solito poi viene proposto un corso di formazione, finanziato con il Fondo sociale europeo, come magazziniere, saldatore, impiantista termoidraulico, o per prendere il patentino per guidare il muletto. A questo punto intervengono le agenzie interinali che prendono in carico la persona e si occupano di cercare il lavoro. Da un paio di mesi è nata una collaborazione con l’associazione Popoli insieme, che ha diversi contatti con cooperative e ditte finalizzati anche all’occupazione e che fornisce un supporto anche per la gestione dei documenti.

Detta così, sembra quasi semplice, ma la realtà è più complessa. «Il mondo del lavoro chiede operai, ma li chiede già formati – sottolinea Davide – quindi la formazione è il primo passo. Le persone sono contente perché sono impegnate, ma a volte fanno un po’ fatica a seguire i corsi, a prestare attenzione, in certi casi anche a rimanere seduti per ore. Qualcuno ha bisogno di essere seguito, spronato un po’. E se si perde, cerco di capire dov’è successo. È necessario mantenere una relazione. Abbiamo a che fare con le situazioni più diverse».

Per ciascuno, una risposta diverse. John ad esempio è stato seguito da Forema, che lo ha formato ed accompagnato allo stage, prendendolo in carico fino a inserirlo nel mondo del lavoro. Un altro ospite delle Cucine, italiano, ha sottoscritto il Patto di servizio al Centro per l’Impiego e attraverso la Did (Dichiarazione di immediata disponibilità) ha mandato il curriculum a diverse aziende e a maggio ha cominciato a lavorare per una ditta di Padova dove guiderà il muletto. C’è chi ha bisogno di lavorare, ma è senza fissa dimora. «Per chi dorme fuori è un problema – osserva l’operatore – Abbiamo chiesto ai servizi sociali del Comune di darci una mano e quando uno ha un posto dormire arriva al lavoro o al colloquio riposato, pulito e in ordine, così è più facile. Bisogna lavorare su più fronti e mantenere una relazione. Non adagiarsi e non arrendersi».

«Se hai il cuore pulito e le mani pulite, puoi cadere, ma ti rialzi». Sta tutta in questa frase apparentemente semplice la storia di John. In Italia da più di trent’anni, la maggior parte dei quali passati con un lavoro, una casa, una vita tranquilla, ha cominciato a frequentare le Cucine Economiche Popolari lo scorso agosto. «Lavoravo, stavo bene, poi ho avuto problemi di famiglia e sono rimasto a terra. Ero molto in difficoltà e sono venuto alle Cucine. E qui mi hanno ritaro su, mi hanno dato coraggio, mi hanno fatto sentire: “tu vivi e vali come persona”. Adesso sto lavorando come magazziniere, a Vigonza, per una cooperativa. Ho trovato questo lavoro tramite le Cucine. Hanno fatto tutto loro. Prima ho fatto un corso con Forema (l’ente di formazione di Confindustria, n.d.r.). Dopo il corso, durato quasi quattro mesi, sono stato inserito come stagista. Ora lavoro 7 ore e mezza al giorno».

Lo dice con la soddisfazione di chi ha temuto di non farcela. «Non ho ancora 50 anni e sono in Italia da una trentina. Vengo dalla Nigeria. Sono innamorato dell’Italia. Mi piace Padova. Ho fatto tanti lavori. Facchinaggio, montaggio e magazziniere. Pulizie. Poi sono arrivato qua, come un uomo che ha perso tutto, soprattutto la fiducia in se stesso. Un uomo disperato. Ma non ho chiesto mai niente. Non ho preteso niente. E loro mi hanno detto “tirati su”. Mi hanno lavato, mi hanno dati i vestiti puliti e buon cibo. Io ho mangiato qui come a casa di mia madre. Mi hanno abbracciato come un figlio. Mi hanno dato un futuro. Mi hanno fatto sentire di nuovo vivo. Se mi avessi visto qualche mese fa… non mi avresti riconosciuto. Credo di non essere stato il solo. L’ho visto fare anche ad altre persone. Ti fanno capire: tu sei una persona e devi andare avanti nella vita. Loro sanno come tirare su le persone».

Loro chi? «Tutto l’ambiente. Suor Albina, i compagni di lavoro, tutti mi hanno dato una mano. Mi hanno fatto sentire che ho ancora un futuro da vivere. E non ci sono discriminazioni. Trattano tutti allo stesso modo».

E’ vissuto sempre a Padova? «Sempre».

E a Padova ci sono discriminazioni? «Ci sono qui come in ogni Paese. L’importante è trovare le persone che capiscono com’è la vita. Se trovi quelle, tu cammini. Non dimentico mai chi mi ha fatto del bene. Loro sono un simbolo per me, che rimarrà nel mio cuore, finché muoio».

Madina Fabretto