L’orto delle CEP: intervista a Guglielmo

Qualche volta la vita ti offre l’opportunità di chiudere un cerchio, tornando su luoghi che ti erano cari, riscoprendo cose che avevi imparato da bambino, e prendendo spunto da tutto questo per un nuovo inizio. A Guglielmo Febo questa opportunità si è presentata sotto forma di orto, uno degli orti urbani nel Giardino Milcovich presi in concessione dalle Cucine Economiche Popolari. Tutto è cominciato un paio di anni fa, quando suor Albina Zandonà, direttrice delle Cep, gli ha chiesto: “Guglielmo, ti vuoi offrire volontario per il progetto dell’orto?”.

«E io ho detto subito di sì. Mi ha fatto piacere che suor Albina abbia offerto a me questa opportunità, anche perché al parco Milcovich ci sono cresciuto. Quando sono venuto a vivere a Padova abitavo lì vicino. Ci giocavo a pallone, ci ho conosciuto delle persone che ora ho ritrovato. I prodotti che coltiviamo arrivano qui alle Cucine e mi piace pensare che do un contributo concreto a quanto viene offerto alla mensa».

Ma come mai suor Albina si è rivolta a te?

«Non avevo mai fatto questo mestiere, ma quando ero ragazzo mia nonna aveva l’orto, sulle montagne  siciliane. Lì tutti avevano un orto. Mi portava con sé e io ne ero felice perché mi piaceva stare in montagna. Si raccoglievano le nocciole, le castagne quando era il tempo, si accudivano gli animali, che ho sempre amato. Stavo con la capra, davo da mangiare ai conigli, alle galline, al maiale. Quell’arco della mia vita è stato tranquillo. Quello che so sulla coltivazione degli ortaggi, me lo ha insegnato mia nonna e l’ho messo a disposizione delle Cucine. Ho piantato i prodotti che conosco, che so come trattare».

Ma come sei arrivato alle Cucine?

«Le frequentavo per trovare un momento di socializzazione. Suor Albina si accorse che stavo attraversando un periodo difficile, mi si avvicinò e disse: “Guglielmo, che cosa ti serve?”, e io glielo spiegai, anche se non sono una persona che esterna facilmente il suo malessere. Ma lei cerca di capire le persone e cosa può fare per loro».

E cosa ti serviva?

«Innanzitutto non sono una persona materialista e mi accontento di poco. Sono alla costante ricerca della mia dimensione, leggo molto e rifletto su quello che leggo e che vedo. Questo mi ha portato a liberarmi del superfluo, di quello che alcuni considerano la normalità. Ho accumulato un sacco di appunti. Quando scrivo non penso mai a qualcosa che mi debba appartenere, ma a qualcosa che possa appartenere ad altri. Ogni tanto ho queste nuvole dentro che devono uscire e fare acquazzone».

E allora cosa fai?

«Ad esempio una volta ho avuto un’idea. All’orto ogni tanto qualcuno di dice: “Guglielmo, ho qualcosa in esubero, la vuoi?”. Allora ho pensato, all’orto c’è una capanna, con un tettoia e un tavolo in legno con due panche. Ho preso la cesta e l’ho messa sul tavolo, con un cartello che dice: “Ciao amici ortolani, io sono Cesta e sono una volontaria delle Cucine Economiche Popolari. Mi trovo qui senza pretese, ma se qualcuno di voi ha in esubero ortaggi o erbe aromatiche, sono qui per dare un piccolo conforto a chi versa in stato di indigenza. Per cui mi affido alla vostra sensibilità. Grazie a tutti”. E la gente ci mette la roba dentro. La frase l’ho scritta io».

Come organizzi il tuo impegno all’orto?

«Nel primo periodo ho dovuto perderci più tempo. Dovevo preparare il terreno, comprare le piantine, che all’inizio hanno più bisogno di cura perché sono piccole. Ora che le piante sono cresciute e stiamo raccogliendo i frutti, non vado più tutte le mattine, perché lavoro, ma come minimo ogni due giorni. C’è sempre da legare il pomodoro più alto, da dare una spuntatina a una pianta, da smuovere un po’ il terreno, per permettere all’acqua di incanalarsi. Ho un mio programma. Vado a fare pulizie delle erbacce il sabato e la domenica, vedo se c’è da raccogliere qualcosa, faccio una chiacchierata con qualche ortolano. Il capo-orto è siciliano come me e cerco di carpire qualche segreto».

E riesci a conciliare questo impegno con il lavoro?

«Sto lavorando per una cooperativa sociale. Sul posto di lavoro sono contenti di quello che faccio, sia dal punto di vista lavorativo che relazionale, quindi sono contento anch’io. Ma c’è stato un periodo in cui non stavo bene. Ero apatico. Mi sono detto, devo uscire da questo torpore atarassico. Mi sono detto: io voglio lavorare. Sapendo che potevo anche contare nell’orto, mi sono detto: ripartiamo. Si dice che la vita inizi a cinquant’anni. Io ricomincio da qua».

Guglielmo Febo