Pace. È questa la parola che meglio descrive la mia Pasqua di quest’anno. Una pace profonda, silenziosa, inattesa. Forse dovrei aggiungere che è stata anche una Pasqua di riconciliazione: con me stessa, con la vita, con l’altro. Questa è, in sintesi, la mia Pasqua vissuta al servizio delle Cucine Economiche Popolari – le Cep – di Padova.
Me lo aveva detto qualche anno fa suor Albina Zandonà: «Arriverà il giorno, tutto arriva a suo tempo.» L’avevo intervistata per un articolo sul Natale alla mensa di via Tommaseo e le avevo confidato che da anni sognavo di essere d’aiuto, almeno una volta, durante una giornata di festa. Ma per varie ragioni, soprattutto familiari, non ci ero mai riuscita. Aveva ragione lei. Quel giorno è arrivato. E lo ha fatto proprio quando ne avevo più bisogno.
Mio figlio in vacanza con suo padre. Io, troppo stanca per affrontare un viaggio fino in Puglia e trascorrere solo tre giorni con la mia famiglia d’origine. E quel senso di inadeguatezza che mi ha pervasa per giorni perché sola in città proprio il giorno di Pasqua.
E invece, proprio in quella solitudine, si è aperto uno spazio nuovo. Uno spazio pieno di umanità, di volti, di mani che lavoravano e di sorrisi gentili. Una Pasqua diversa, che mi ha riconciliata con tutto ciò che ero e che sono.
Il giovedì santo mi sono venute in mente le parole di suor Albina. Ho cambiato prospettiva. Mi sono accorta che spostando il focus da me agli altri allora la mia solitudine aveva un senso. Le mie mani servivano per aiutare e quel giorno era arrivato.
Un messaggio breve: «Sono libera a Pasqua serve aiuto?», una risposta altrettanto breve: «ci serve una persona al lavaggio piatti se per te va bene ti aspettiamo alle 11.15» e il cerchio si è chiuso.
Avevo deciso di tenere per me questa giornata. Di non raccontarla a nessuno, come si fa con le cose preziose, intime. Ma suor Albina me lo ha chiesto con quel suo garbo silenzioso, quasi sussurrando, e non ho saputo dirle di no.
E così, eccomi qui a cercare le parole per restituire il senso di una giornata che, in apparenza, ho trascorso solo a lavare piatti. Sono passati davanti a me centinaia di vassoi, uno dopo l’altro, nella piccola stanza adibita a lavatoio. A tratti non c’era nemmeno il tempo per bere un sorso d’acqua. Eppure stavo bene. Così incredibilmente bene da sentirmi commossa.
Quel benessere non veniva dalla fatica o dal gesto ripetuto, ma da qualcosa di più profondo.
Minuto dopo minuto, la giornata prendeva senso. Il senso di essere parte di qualcosa di più grande, più vero. Di una Pasqua condivisa con oltre cento persone che, entrando in una sala addobbata a festa, hanno trovato accoglienza, sorrisi, mani tese. Hanno trovato un luogo in cui essere visti, ascoltati. Un luogo in cui incontrarsi davvero, in cui sentirsi – almeno per un giorno – parte di una relazione.
E io, nel silenzio retro della sala cucina, immersa nei piatti da lavare, ero lì con loro. E dentro di me, era Pasqua.
A servizio finito, insieme alle altre volontarie, ho preso il mio vassoio e sono andata a mangiare in sala. C’erano ancora gli ultimi ospiti che finivano il pranzo. Mi sono seduta al primo posto libero, tra cinque persone che non conoscevo. Abbiamo iniziato a parlare, semplicemente, come se ci conoscessimo da sempre. E, in quell’istante, mi sono sentita a casa.
Ho vissuto quei quindici minuti di pranzo pasquale nella più piena serenità. Ero una persona tra le persone. Così profondamente dentro quel momento, da dimenticare tutto il resto.
Quando mi hanno chiesto che lavoro facessi e perché fossi lì, ho cambiato discorso. Perché in quel contesto, io ero semplicemente Rossana, e niente di più. Chi mi conosce lo sa: per me essere conta più di qualunque etichetta, più di qualunque ruolo. E spesso, proprio per questo, faccio fatica a rientrare nei confini delle regole sociali, perché l’essere – così com’è – non sempre paga.
Ma lì, a quella tavola, io ero e basta. E non avevo nulla, esattamente come i miei compagni di pranzo. Eppure non mi mancava niente.
Stavo così bene che, alla fine, sono rimasta ad asciugare vassoi. Non volevo che finisse quella sensazione di benessere profondo. Un benessere che non veniva dall’aver scelto di stare sola, fuori dal rumore delle consuetudini. Ma dal fatto che, per quattro ore, ho potuto semplicemente essere un essere umano tra esseri umani. Identificata solo da una testa, due braccia e due gambe.
Nient’altro mi è stato chiesto. E forse, per la prima volta da tanto, è stato tutto ciò che serviva.
È stata davvero una Pasqua di riconciliazione, la mia. E ne sono profondamente grata. Alle volontarie che hanno condiviso con me questa giornata. A Paola, compagna di avventura nella stanza lavatoio. In quei pochi metri quadrati stracolmi di stoviglie, ci siamo scambiate ricordi, speranze, paure. Ci siamo raccontate senza filtri. E in quel raccontarci, ci siamo riconosciute simili, anche se diverse: le storie familiari, i figli, gli animali, il sogno condiviso di una casetta con un piccolo giardino. Ascoltandola parlare, ho pensato che suor Albina aveva orchestrato tutto con la delicatezza e la precisione di chi sa guardare oltre. Due anni fa, quando l’avevo incontrata per l’intervista, suor Albina aveva letto qualcosa tra le pieghe della mia anima. Non aveva forzato nulla.
Ha atteso in silenzio il mio messaggio, senza anticipare i tempi. E quando quei tempi sono arrivati, mi ha messa esattamente lì dove sapeva che ogni gesto, ogni incontro, ogni parola sarebbe stata balsamo.
Forse è proprio questo che rende le Cucine Economiche Popolari di Padova un luogo speciale. Perché non sono solo un rifugio per chi cerca un pasto o un sorriso. Sono un posto di cura per l’anima sia per chi è di là dal vetro dello sportello, sia per chi è di qua. E io, in questa Pasqua, mi sono sentita curata. Accompagnata. Riconciliata con ciò che sono. E infinitamente grata per aver potuto, semplicemente, essere me stessa.
Rossana Certini